1944 - NATALE DI GUERRA

3° Premio nel Concorso letterario della rivista "Nuova e Nostra" - Dicembre 2003

Nonno Carlo e nonna Maria, poi Papà, Mamma, Angela, Carlo, Paolo, Antonio, Giuse, Nilla, e infine Ambrogio. Così era composta la mia famiglia in quel lontano 1944. Avevamo un pollaio con galline e oche, un cane dal pelo nero chiamato Moretto (in seguito ogni nostro cane ebbe lo stesso nome) che era il vero padrone del cortile; la lunghissima catena cui era legato gli permetteva di arrivare fino al portone impedendo così l'accesso agli intrusi. C'era anche, presenza indispensabile abitando in campagna, una bella gatta dal pelo tigrato e lucido, che stava sempre a sfregarsi contro le gambe di chi le capitava a tiro, cercando di attirarne l'attenzione con un miagolìo insistente, guadagnandosi i rimbrotti di nonna Maria, che con epiteto quasi intraducibile, soleva dirle: « Marscion va a ciapà i ratt! » ( Marcione vai a cacciare i topi")La frase era così entrata nel nostro linguaggio familiare, tanto che uno di noi che da piccolo non riusciva a pronunciare le lettere "C e R" la ripeteva a modo suo:«Marson va a sapà i att"»

La gatta si cibava di quel poco, pochissimo che riusciva a trovare incustodito (ricordo mia mamma piangere disperata perché il felino era riuscito a rubare un pezzo di burro), oppure, come spronava giustamente nonna Maria, dando la caccia ai topi che in campagna non mancavano. D'inverno se ne stava beatamente vicino al fuoco del camino, che nonno Carlo teneva acceso e custodito, temendo che la nostra vivacità ci avrebbe procurato qualche ustione. Ogni anno avevamo una nuova cucciolata che mamma gatta partoriva nella "Cà di legn", il rustico dove tenevamo, oltre alla legna da ardere, anche il legname che serviva al papà per il suo lavoro d'intagliatore, ma soprattutto stracci, che barattavamo con lo strascee  lo straccivendolo, per avere in cambio un pezzetto di preziosa liquirizia.

 Perciò la gatta trovava modo di tenere al caldo i suoi cuccioli, che erano la mia passione; di nascosto dai miei genitori portavo le mie amichette a vederli. Poi sparivano, e il mio dispiacere nel non trovarli più svaniva quando m'illudevano che la gatta li aveva portati in un luogo dove avrebbero mangiato tanto burro!

Come dicevo, c'erano anche le oche, e anche loro prima di essere mangiate (obbligatoriamente a Natale) dovevano mangiare. Portarle a pascolare era il compito di noi tre più piccoli; mi rivedo ancora con in braccio Ambrogio che non aveva ancora compiuto l'anno, e con il bastoncino che serviva a "guidare" le oche avviarmi al solito posto, una striscia di prato incustodita, che diventava il loro pascolo e anche il nostro luogo di gioco. Non ero mai libera del tutto, perché se qualche volta per poter giocare "depositavo" Ambrogio sull'erba, dovevo badare che Nilla e le oche non corressero pericoli. Insomma una vera fatica anche per poter giocare!

Le oche diventavano sempre più grasse, significava che Natale si avvicinava; vennero i giorni della Novena natalizia, cui partecipavano tutti i bambini e i ragazzi del paese: in chiesa cantavamo  "Tu scendi dalle stelle" e all'uscita, tornando a casa, già pregustando il pranzo natalizio, cantavamo a squarciagola:«Piva, piva mazza l'òca...l'ho mettuda in del caldar per mangialla al dì de Natal » (l'ho messa nel pentolone per mangiarla il giorno di Natale). Erano insomma due novene: quella religiosa e quella laica.

Aspettavo Natale per tre diversi motivi: vedere il presepe - che papà preparava di nascosto alla sera della vigilia dopo averci mandato a letto presto, - per la bella tovaglia bianca che la mamma quel giorno usava per apparecchiare la tavola (che da sola mi dava l'idea della festa grande e della cose buone da mangiare), e per la bambola che avrei avuto in dono, (sempre la stessa!) che era già stata il balocco delle mie sorelle maggiori, e pochi giorni dopo sarebbe "sparita" per riapparire il Natale successivo.

Finalmente venne il gran giorno... ed io, che fino allora non mi ero resa ben conto della guerra - avevo solo cinque anni- ebbi modo di farne conoscenza proprio a Natale.

Il pranzo era atteso da tutti (c'era la fame!) e consisteva obbligatoriamente nel risotto con lo zafferano e poi dalla nostra oca con patate cotte nel suo grasso. Una vera leccornìa! Non potrò mai dimenticare il delizioso profumo dell'oca che arrostiva nell'enorme tegame sulla stufa economica.

Improvvisamente un rumore sordo, cattivo, riempì l'aria terrorizzandomi. Papà prese noi tre piccoli, ci portò di corsa nel laboratorio e ci fece sdraiare sotto il banco da falegname che, diceva, ci avrebbe riparato dai proiettili degli aerei. Bersaglio dell'incursione dei Caccia Alleati era il Parco Militare situato a poca distanza da casa mia. Paura, anzi vero terrore per me, che per la prima volta mi rendevo conto della guerra e proprio nel giorno tanto atteso del presepe, della tovaglia bianca e dell'oca!

Poi, passato il pericolo e riavutami dalla paura, sentii un grido disperato: "L'oca! "L'oca! Era successo che nel trambusto creato dagli aerei nessuno aveva curato la gatta, che sfidando bruciature e ...botte, aveva scoperchiato il grosso tegame e si era impadronita del nostro prezioso pranzo natalizio.

Recuperammo l'oca in mezzo al cortile, lacerata dalle unghie gattesche, ma ancora in carne e il nostro pranzo ebbe inizio tra i mugugni di nonna Maria e il " magone" di mamma. Che Natale triste fu quello! La paura della guerra sommata al dispiacere della mamma mi tolse la gioia della festa.

Grande fu il mio stupore quando, poche sere dopo, in tavola oltre alla solita polenta c'era un fumante ed invitatissimo coniglio che divorai con gusto.

Solo in seguito cercando il mio bel gattone e vedendo i sorrisetti ironici dei miei fratelli grandi, capii con ribrezzo e dolore che il "rapitore" della nostra oca era stato punito, e il pranzo natalizio riscattato!

Nonna Giuse.

Dedico questo racconto di vita vissuta ai miei nipotini Federico, Martina, Alessandro Cristiana e Annachiara con l'augurio che possano vivere in un modo di PACE! ,